Senza che ce ne accorgessimo, giorno dopo giorno, ma con una velocità inimmaginabile, le nostre vite sono cambiate profondamente negli ultimi 15 anni. La diffusione dei servizi digitali, ma soprattutto, la loro accessibilità istantanea tramite dispositivi tascabili (primo fra tutti, lo smartphone) sta modificando i nostri stili di vita, ed anche il nostro modo di concepire il mondo, con straordinari vantaggi.
Ma anche molte insidie.
L’affiancamento, o addirittura sostituzione, di attività tradizionali con i loro equivalenti digitali, infatti, ci ha portato a pensare che l’innovazione consista fondamentalmente nel compiere la stessa operazione, soltanto in modo più comodo e veloce. Non è così; tuttavia l’evoluzione è talmente rapida che alla nostra mente sfuggono alcuni dettagli piuttosto sostanziali. Acquistare in un negozio fisico o su Amazon, gestire le proprie fotografie nell’hard disc del proprio PC o nel cloud di Apple, utilizzare un atlante stradale o Google Maps non sono la stessa cosa. Lato utente, la differenza è percepita nella migliore fruibilità del servizio, lato provider la differenza è data da un flusso di informazioni che, nella misura in cui i servizi sono utilizzati da milioni, miliardi di individui, diventano un’enorme fonte di ricchezza.
Abili professionisti, denominati user experience designer, lavorano notte e giorno per farci percepire come facili, immediate e gradevoli delle operazioni, in realtà, estremamente complesse. Il loro scopo non è solo quello di invogliarci ad usare il prodotto (e, più intensivo è l’uso, maggiori saranno i dati raccolti) ma anche, con diverse sfumature, ingannare la nostra psiche, mascherando le reali intenzioni del produttore ed il vero ruolo dell’utente. Che non è, come spesso crede, il cliente del servizio, ma più facilmente, una inesauribile fonte di dati.
In un recente articolo pubblicato sulla rivista Limes, ho letto di una teoria secondo la quale Tik Tok, il social network di origine cinese molto popolare tra le giovani generazioni, funzionerebbe diversamente in Cina e negli USA. In Cina, l’algoritmo valorizzerebbe i contenuti tradizionali della vita rurale, che richiamano i valori della fatica, dell’impegno e della solidarietà. Negli USA, un differente algoritmo valorizzerebbe invece i contenuti frivoli della società urbanizzata, il piacere immediato, il disimpegno, il divertimento fine a se stesso. La trama nascosta, secondo la teoria, sarebbe quella di fiaccare le giovani generazioni americane in vista del futuro conflitto tra le due superpotenze. Che questo disegno esista o meno, non è dato sapere, ma in ogni caso la teoria evidenzia due verità difficili da contestare. La prima: nessun algoritmo è “neutrale”, ogni prodotto è, nel bene e nel male, espressione della filosofia di chi l’ha costruito. La seconda: la maggior parte dei provider non è, né ha interesse ad essere, trasparente rispetto agli obiettivi reali del suo prodotto.
Non si tratta di rinunciare agli indubbi benefici della digitalizzazione, ma di affrontare questo nuovo mondo con un alto livello di vigilanza, quella che mi piace chiamare “consapevolezza digitale”.
Cosa è la consapevolezza digitale? È una combinazione di pensieri ed azioni orientati a comprendere la complessità del mondo digitale e trasformare l’utente da soggetto passivo a soggetto attivo. La consapevolezza presuppone uno sforzo individuale per uscire dalla zona di comfort in cui gli user experience designer cercano di relegarlo. Consapevolezza significa analizzare e conoscere i propri bisogni, e compiere azioni quotidiane per disinnescare le trappole della digital economy. Al tempo stesso, saper sfruttare quanto la tecnologia ci offre per migliorare la nostra vita.
Cosa è la consapevolezza digitale? È la capacità di tenere un piede nel digitale e l’altro piede nell’analogico, senza perdere di vista la differenza tra realtà e rappresentazione, senza dimenticare che l’essere umano è nato per il reale, non per il virtuale.
(continua…)